La storia secolare di questo vitigno a bacca bianca, oggi si ritrova nella base ampelografica dei vini a DO più pregiati del Sannio. L'etimologia del suo nome si pensa derivi dal termine «falanga», palo utilizzato per appoggiare ceppi di vite, che rappresenta la linea di confine tra la viticoltura greca e quella latina (Murolo). La sua riscoperta e successiva diffusione in provincia di Benevento, inizia negli anni settanta nella zona di Sant'Agata dei Goti. Una delle migliori qualità di questa uva è che, qualunque sia la zona dove viene coltivata, il vino che ne deriva conserva intatte le sue caratteristiche organolettiche. Inoltre è un vino di successo perché riesce ad esprimersi in maniera pregevole, anche attraverso la versione spumante e la versione passito dolce.
La Falanghina rappresenta il vitigno principe della DOC Falanghina del Sannio, anche nelle sottozone Taburno, Sant'Agata dei Goti, Solopaca e Guardiolo, e nelle tipologie tranquillo, vendemmia tardiva, spumante di qualità e passito dolce.
Ha foglia media o piccola, cuneiforme; grappolo lungo o medio, di media grandezza e compatto, cilindrico o conico, con un’ala corta; acino medio, sferoide, regolare; buccia spessa e consistente, di colore grigi-giallastro, con buona presenza di pruina. La vigoria è buona e produttività media e costante; matura nella seconda metà di settembre. La Falanghina si adatta a diversi tipi di terreni, anche fertili, ma la qualità viene esaltata nelle zone collinari e predilige climi caldi e asciutti. Si avvantaggia notevolmente delle forme di allevamento a portamento verticale, in particolare del Guyot. È abbastanza resistente allo iodio e alla botrite ma piuttosto sensibile alla peronospora soprattutto sulle foglie.
Il profilo sensoriale del vino da uve Falanghina, presenta un colore giallo paglierino con riflessi dorati. Il profumo è fine molto intenso e persistente, dominato da note fruttate, di mela e frutti esotici, note floreali di ginestra, biancospino. Al gusto è un vino piacevole e fresco di acidità, che si accompagna a pietanze a base di pasta o riso in salsa bianca o con pesce, minestre di verdure, carni bianche, formaggi a pasta filata freschi e non molto stagionati, la versione spumante su risotti e da tutto pasto, la tipologia passito, su dolci a pasta lievitata con crema gialla e sulle crostate di frutta gialla.
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La falanghina in Campania rappresenta oggi il più diffuso vitigno a bacca bianca, autorizzato e presente in quasi tutte le DO e IGP della regione, ma non solo.
La sua distribuzione in Campania è di circa 3000 ettari ( 15% dell’intera superficie regionale) ed è presente in tutte le cinque province campane, con Benevento che ha una superficie di 2261 ettari (circa l’80% dell’intera superficie regionale dedicata al vitigno falanghina).
Significativo è l’incremento di superfici vitate degli ultimi tre anni, a riprova che si tratta di una cultivar che riscuote sempre più successo per la sua versatilità produttiva, influenzata anche dalle tendenze del mercato nazionale ed internazionale sul consumo di questa tipologia di vino: nell’ ultimo triennio sono state presentate 1540 domande per 1659 ettari (oltre il 50% delle domande e quindi della superficie, riguarda la provincia di Benevento).
La Falanghina nella storia a cura del prof.Riccardo Valli
In Campania sono coltivate due varietà di vitigni che portano il nome di “Falanghina”: quella di Pozzuoli, diffusa prevalentemente in provincia di Napoli “ dove rappresenta il vitigno a bacca bianca maggiormente diffuso nei vigneti”[1], e quella beneventana o “di Bonea” o “appesa”; peraltro, la differenza genetica tra i due vitigni è messa in luce dalle indagini di caratterizzazione molecolare finora effettuate.
La falanghina “di Pozzuoli” può vantare rispetto all’omonimo vino caudino diversi riscontri testimoniali nelle fonti letterarie a partire dal ’500. Passiamoli in rapida rassegna. G. Cesare Cortese (1570-1640) cita la falanghina più volte: una nel Micco Passaro[2] : “ A la casa porzì l’era mannata / La falanghina da lo tavernaro / Pane de puccia da lo panettiero / Che senza spesa stea da Cavaliero”; due volte nel Viaggio di Parnaso[3]: “Vide da na Lattuca mortarella / Scire la Falanghina de Pezzulo”; e: “Scorre da na fontana Moscariello, / Da n’autra Mangiaguerra, e Falanghina, / chesta de latte fa no sciummetiello, / Chella de mele corre a la marina”.
G. B. Basile (1575-1632), elencando i vini che si servono nella celebre osteria napoletana del Cerriglio, scrive[4]: “la Falanghina iusto ‘na falanga / perché scorra la varca a la marina”. Ambedue i poeti, ma il Basile con tutta evidenza, sembrano anche proporre un’etimologia del nome “falanghina” connettendolo alla falanga, cioè “ la palancola usata per caricare e scaricare posta fra la barca e la terra”, come spiega il Grande Dizionario della Lingua italiana di S. Battaglia.[5]
C’è da aggiungere che il vitigno Falanghina, benché presente da secoli nel territorio regionale, ha cominciato ad interessare gli ampelografi solo nell’800[6]i quali, peraltro, si sono fermati essenzialmente all’analisi della Falanghina di Pozzuoli o dei Campi Flegrei: nulla, o quasi, hanno detto della Falanghina beneventana. Lo stesso G. Froio del quale si cita spesso lo scritto “Presente e avvenire dei vini d’Italia”[7] tratta assai male i vini del beneventano che definisce come “pochi e di scarsa importanza, salvo quelli di Pannarano e Cerreto dove predomina il vitigno Pollagrella, che è più gradevole e meno acido”[8] ; e quanto al vitigno Falanghina (naturalmente quello di Pozzuoli), nell’apprezzarne le virtù enologiche, suggerisce di chiamarlo Falernina e di diffonderne la coltivazione in Terra di Lavoro, specie sulle colline di Sessa e di Formia “perché è capace di dare un vino veramente eccellente se fabbricato in un dato modo”.[9] La Cantina Mustilli di S. Agata dei Goti si incaricherà nel 2003[10] di applicare il “metodo Froio” di vinificazione della Falanghina e di metterlo a confronto con il proprio: se Froio avesse potuto vedere i risultati di tale esperimento si sarebbe dovuto ricredere non solo circa il suo “metodo”, ma anche circa le potenzialità territoriali da lui indicate.
Di sicuro il gusto d’oggi appare assai mutato rispetto a un secolo fa; ma non si può non riflettere su un’osservazione contenuta negli Atti della Giunta sull’Inchiesta Agraria Jacini[11] proprio in relazione al gusto: “Il mercato di Napoli (...) ha esigenze proprio contrarie ad una buona vinificazione, perché si vogliono vini molto coloriti e che satollano quasi con la loro densità; la trasparenza non è un requisito richiesto; i vini spogliati vengono rifiutati, credendoli annacquati, e da parecchi si predilige un poco di sapore dolcigno. (...) Le provincie di Salerno, Avellino, Benevento e Terra di Lavoro producono meravigliosa copia di vini a buon mercato, i quali, giudiziosamente conditi e preparati per la navigazione, potrebbero senza dubbio gareggiare coi vini di altre contrade, tanto più che i vini vesuviani o di Pozzuoli servirebbero mirabilmente come condimento ad altri vini.”
Per tornare alla Falanghina beneventana, occorre peraltro sottolineare come il vitigno, pur diffuso sul territorio da epoca antica, ha trovato la sua piena valorizzazione solo negli ultimi decenni del ‘900. Infatti, in una ricerca sui vini campani riferita alla zone del Taburno[12] il vitigno Falanghina non si trova neppure citato; esso, invece, compare in tre dei cinque campioni di vini bianchi analizzati e valutati da una Commissione di enotecnici ed esperti guidati da B. Mincione[13]nel 1977; tale Commissione giudica la Falanghina come “un vino caratteristico e di sicuro interesse sia per vinificazioni in assoluto, sia per i tagli”. E’ lo start che la Falanghina attendeva: il primo ad esplorare la strada è l’ing. Leonardo Mustilli, che negli anni immediatamente successivi inizia la vinificazione in purezza della Falanghina di Bonea, la fa conoscere sui mercati, sollecita l’attenzione di produttori grandi e piccoli sul vitigno che nel periodo tra il 1994 e il 2000 ha fatto registrare un incremento all’incirca del 60% della superficie interessata alla sua coltivazione.[14]
E se è vero che la Falanghina di Bonea non ha avuto cantori del calibro del Cortese e del Basile, si è giovata, però, dell’opera appassionata di viticoltori e tecnici che le hanno procurato un consenso sempre maggiore, come espresso da un mercato che l’apprezza sempre di più. Del resto, le cantine beneventane che oggi producono la falanghina sono numerose e di ottimo livello, così come sono estremamente interessanti le previsioni circa le potenzialità produttive e competitive e le prospettive di sviluppo.
[1] Cfr La risorsa genetica della vite in Campania (cit.), sotto la voce “Falanghina”.
[2] Cfr G. C. Cortese , Opere, t.I, Napoli (Porcelli) 1783, p.16 st. 16.
[3] Cfr Id., ibidem, canto I, p.180 st.16; e canto VII, p. 247 st. 23.
[4] Cfr G. B. Basile, Le Muse napolitane- Talia , G. Laterza 1976, pag. 484, vv. 145/6.
[5] L’etimologia proposta trova riscontro nell’Onomasticon di Giulio Polluce (VII 190 –ed. Bethe): τ? δ? τ?ν νεωλκ?ν ξ?λα, ο?ς ?ποβληθε?σιν ?φ?λκονται α? ν?ες, φ?λαγγες κα? φαλ?γγια. (i legni usati da quelli che tirano le barche in secco, dopo averli collocati al di sotto, falanghe).
[6] Un esauriente analisi dei contributi dei diversi Autori che hanno studiato la Falanghina ha svolto di recente M. Manzo,La Falanghina nella storia, in Colori, odori ed enologia della Falanghina (a cura di Luigi Moio), Regione Campania, Napoli s.d. (ma: 2005).
[7] Pubblicato a Napoli presso B. Pellerano nel 1876.
[8] Cito dal testo in inglese pubblicato in A. Monaco, A.C.Mustilli, L. Pignataro, Falanghina, F. Di Mauro Editore, 2005, p.71. La menzione del vino di Pannarano può essere stata suggerita dal prof. Nicola Orazio Albino, delegato del Comizio Agrario, che nella sua Relazione sullo stato dell’agricoltura del Circondario di Benevento(in Bollettino dei Comizi agrari, anno III, n. 7, luglio 1871, pagg.92/93) scrive tra l’altro: “Le specie d’uve sono svariate, e solamente nel Comune di Pannarano si osserva l’unicità di ceppo. Quindi il solo Pannarano offre vini da pasto ottimi, siano rossi siano bianchi. In tutto il resto del Circondario i vini sono spregevoli.”.
[10] Cfr ibidem, pp.87/89.
[11] Cfr Atti ecc., vol.VII, Roma 1882, pagg. 63/sgg.
[12] Cfr B. Mincione,C. Buondonno, S. Spagna Musso, Ricerche sui vini campani- Il Taburno, in Rivista di viticoltura e di enologia di Conegliano, anno 33°, n.8, agosto 1980 (ma la ricerca data agli anni 1975/76).
[13] Cfr B. Mincione, Risultati analitici delle prove di vinificazione e dei tagli effettuati sui vini del Sannio nella vendemmia1977 ( a cura del Co.Pro.Vi.Sa.), in Sannio Economia 1/79, Benevento.
[14] Cfr E. Pomarici et alii, La Falanghina,potenziale produttivo etc. in Colori, odori ed enologia della Falanghina (cit.), p. 29.